Eccoci arrivati a quella che forse è la decade più attesa della nostra mini-rubrica Un Decennio in Musica, i protagonisti di oggi: gli anni 70. Se prima il tentativo di riassumere dieci anni era arduo, qui si rivela impossibile per la mole di perle uscite, sul nostro profilo Facebook tempo fa era stato fatto un gioco nel quale bisognava scegliere un album da salvare fra quelli usciti nel 1973 e già in questo singolo anno avevamo titoli i quali han scritto la storia.

 

 

Dal momento in cui il pubblico è sovrano, abbiamo deciso di inserire nelle prime due posizioni i due titoli più votati nel giochino precedente, vista l’immagine potete capire quali; invece al terzo posto troverete colui che si è piazzato terzo nel gioco fatto su Facebook ma con un altro album, precisamente del 1972 e che ancora più nel passato, era stato definito dalla nostra community come il “Preferito da far rivivere per un concerto finale”.

Perciò si può dire in un certo senso che questa volta la “classifica” sia stata fatta da voi, vogliamo scoprire i candidati?

3) David Bowie – The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars

Eh vabbè, potevamo tutti tralasciare il Duca Bianco? Ziggy Stardust vanta alcuni tra i più famosi ad amati brani di Bowie; il tema dell’album è fenomenale: il mondo ormai è a p… Sull’orlo di una apocalisse (oggi potremmo parlare di “crisi”), ma fortunatamente la salvezza e il destino del globo è nelle mani di un ragazzo il quale, grazie ad un potere alieno, diventa una rockstar. In sintesi ancora più breve è l’autobiografia del Duca perchè ricordiamolo: questo, come molti suoi album, hanno influenzato la cultura mondiale. Tra l’altro è stato realizzato anche un set di francobolli con la copertina di Z.S.

Iniziamo a scoprire il disco più nel dettaglio, la prima traccia è Five Years: Ziggy deve darci una brutta notizia, le risorse naturali stanno finendo e tra 5 anni non resterà più niente di noi. Il brano segue un climax ben preciso, il tempo rimane sempre scandito dalla batteria e detta le atmosfere; si inizia con una sorta di ballata la quale cresce fino all’urlo liberatorio di Bowie. Dopo una notizia del genere ecco un brano estremamente malinconico, l’autocommiserazione e il rimpianto sono padroni difatti in Soul Love. Le chitarre acustiche guidano l’ascoltatore in un turbinio di immagini permeate da una spiccata emotività.

Il brano termina in dissolvenza per lasciarci a Moonage Daydream, ecco che in questo preciso istante ci viene presentato il messia dalla forma androgina, un essere irriverente dedito al rock ‘n roll. Atmosfere allucinanti grazie ai falsetti del Duca, chitarre distorte all’inverosimile e un assolo di sax radioattivo. In questi minuti abbiamo l’apoteosi del glam-rock.

Eccoci al primo singolo estratto dall’album, Starman, uno dei più celebri brani dell’intera discografia. Incontri ravvicinati del terzo tipo uscirà 5 anni dopo, sicuramente traendo ispirazione da questo pezzo. Poche sillabe costruiscono versi diventati pietre miliari: dallo spazio arriva il messaggio il quale interrompe ogni trasmissione radiofonica per annunciare la venuta di un Uomo delle Stelle al fine di salvare la Terra dalla condanna eterna.

Il lato A del disco si chiude con It Ain’t Easy, una cover del’americano Ron Davies risalente al 1970. Non è un caso che si riprenda l’atmosfera quasi religiosa di Soul Love tramite uno stile gospel sia nei cori che contenuti; si capisce che il pezzo apre la strada al successivo Lady Stardust. Perla melodica senza precedenti dedicata a Marc Bolan. Da nominare il melodismo eseguito dal piano, oltre che l’ineccepibile interpretazione di David Bowie.

Ormai Ziggy è diventato una Star, titolo del pezzo successivo, e difatti i ritmi si fanno rapidi proprio come l’ascesa dell’alieno. Star si può dire quasi sia un ponte narrativo tra le atmosfere velatamente (mica tanto) malinconiche delle tracce precedenti e la megalomania della successiva Hang On To Yourself. Pezzo ispiratore di God Save The Queen (quella dei Sex Pistols), vive di vita propria col suo pulsare ritmico incalzante e le sue chitarre sfrenate. Qui si apre una metafora riassumibile nella formula Rock = sesso + ambizione + appagamento. Esiste tuttavia un però: il raggiungimento dello status di rock star prefigurerà la caduta stessa di Ziggy (ricordiamo che il titolo dell’album è The rise and Fall).

Si arriva così alla title track Ziggy Stardust, una perla sotto ogni punto di vista. La linea melodica, così come l’assolo, è diventata iconica nel repertorio di Bowie, il testo è permeato di riferimenti ad icone del rock. La creatura creata dal Duca è nel punto focale dell’arco narrativo, è l’inizio della fine per il povero Ziggy e lo sappiamo, purtroppo. Al destino non si sfugge, poi quando a tirare i fili c’è nientemeno che David Bowie non possiamo farci illusioni.

Si arriva così alla penultima traccia Suffragette City. Dobbiamo ricordare le pantomime eseguite da Bowie e Ronson sul palco durante lo Ziggy Stardust Tour? Questo è un pezzo splendido, una scorribanda di chitarre velocissime e coretti ambigui. Il testo? Un inno alle prostitute che consacra questo pezzo come cavallo di battaglia dell’epoca glam.
Momento finale dedicato a Rock ‘n’ Roll Suicide, momento più emozionante dell’intero album, perchè è giunta l’ora del commiato dell’alieno, ovviamente presentato nella maniera più teatrale possibile: le ultime ore di Ziggy sono invase dalle sue riflessioni sullo status di rockstar il tutto con tanto di sigaretta in bocca.
Il crescendo finale è scandito da archi e fiati accompagnati poi dalla voce teatralmente nevrotica di Bowie per accompagnare la fine dell’effetto-giovinezza dell’alieno.

Ziggy Stardust è probabilmente l’emblema di quanto le parole “arte” e “commerciale” possano fondersi e dare luce ad un prodotto estremamente intelligente e di rilievo. Non è un disco facile, i rimandi al suo interno sono molteplici; ad un primo acchito sembra una favoletta con la classica metafora ma non è così. Ziggy Stardust non è un album col quale ci si può permettere il lusso di ascoltarrlo solamente, bisogna anche capirlo.

 

2) Genesis – Selling England by the Pound

Album che divide le masse, ma come si dice “purchè se ne parli” e di Selling England By The Pound se ne parlerà ancora per molti decenni. Poteva stare fuori dalla classifica? No. Il disco racchiude 8 tracce le quali variano dal minuto e mezzo agli oltre 11 minuti. Per i Genesis significò scrollarsi di dosso il paragone con altri colossi del prog, il raggiungimento della consacrazione definitiva e tutto questo celebrando la vendita dell’Inghilterra un tanto al chilo, quasi sminuendola tramite versi manieristici portati poi sul palco con i pochi mezzi del tempo ma suscitando tuttavia emozioni indescrivibili.

La copertina del disco sarà l’atmosfera più realistica della loro fatica, perchè gli scenari narrati da Peter Gabriel sono quanto più di inimmaginabile possibile. Inutile dire che non è un disco solo da ascoltare, è un disco da immaginare. Leggersi i testi nella lingua più vicina all’ascoltatore è di vitale importanza per (cercare) di comprendere un album di questo calibro, perchè sotto la voce beffarda di gabriel si nascondono significati più ancestrali dell’esoterismo stesso.
Come di consueto, vediamo più nel dettaglio le tracce.

L’album si apre con Dancing With The Moonlit Knight e proprio come una danza, qui le parole scritte da Gabriel si intrecciano tra loro formando giochi di parole e parole ambigue, alcune volte intraducibili, ma il risultato è una denuncia velata di ironia dell’Inghilterra. Il mood armonico è solenne, la voce cambia in continuazione, prima secca e poi acida, l’assolo presente è semplicemente potente per lasciarci soli in balia di strane melodie che confluiscono in un rumore sconosciuto, o quasi.
Questo è un brano da tenere a mente perchè niente qui è lasciato al caso.

I 4 minuti successivi acquiscono una vena tendente quasi al pop-rock, è il momento di I Know What I Like (In Your Wardrobe): il cavallo di battaglia dei Genesis quando era il momento di calcare i palchi. Il testo potrebbe cogliere in pieno ognuno di noi in un frangente della propria vita; narra di un ragazzo, Jacob, il quale viene costantemente sottomesso dalla famiglia e da chi gli sta intorno. I toni sono scherzosi e psichedelici e c’è un valido motivo: ognuno di noi ha le proprie scimmie mentali che aiutano a stare meglio, Jacob falcia l’erba, se non altro sta all’aria aperta.

Si arriva così ad un “pezzone”: Firth Of Fifth. Semplicemente riassumibile col termine “barocco”, segue uno sviluppo tutto suo, con virtuosismi elaborati iniziati da un assolo di pianoforte da far tremare i polsi, citiamo ovviamente anceh la parte intermedia con Hackett protagonista. Un capolavoro melodico assoluto, se non in questo caso per il testo, i Genesis stessi lo definirono banale nel signficato, ma l’interpretazione di Peter Gabriel dovrebbe valergli un Oscar. Questo ad indicare che se uno ha gli strumenti per dire qualcosa, anche di banale, difficilmente cadrà in errore. Chapeau.

Il lato A si chiude con More Fool Me, cantata da Phil Collins. Il brano è una ballata semplice ma intensa, probabilmente una traccia più “trascurabile”, soprattutto se si pensa al paragone con Peter Gabriel. Ma il signor Collins ha una vocalità pienamente coerente col pezzo: un’innocente dolcezza.

Il secondo lato si apre con Battle Of Epping Forest, introdotto da una marcetta la quale ci conduce sul campo di battaglia. Qui medioevo e progressive si fondono per raccontarci quella che solo in apparenza è una battaglia tra due bande, ma anche qui il testo è intrinsecamente articolato e di difficile interpretazione. Magistrale la melodia, probabilmente la più elaborata del disco, la quale riprende le galoppate e le gesta degli eroi, tramite strumenti che sembrano duellare fra loro.

Segue la geniale After The Ordeal, un pezzo strumentale rinascimentale. Hackett è suadente, la batteria lo segue a ruota e il flauto è in continuo divenire. Unica nota triste: questo brano ha causato qualche discordia in casa Genesis, a tal punto che successivamente Hackett lasciò la band. Ai tempi non lo sapevamo, ma ora sì e la malinconia è sempre dietro l’angolo.

Penultimo brano, una pietra miliare: Cinema Show. L’inizio è tenue, voce e chitarra si sostengono l’un l’altra, L’assolo di tastiere è invece maestoso. Il testo è di nuovo spiazzante: Romeo & Juliet vogliono passare una serena serata al cinema, poi subentra nientemeno che Tiresia. Solo i Genesis potevano pensare ad un connubio simile, chissà oggi i due novelli quale film avrebbero visto. Ci piace immaginarlo.
Si arriva così all’ultimo pezzo Aisle Of Plenty, manco due minuti. Ma è necessario dal momento in cui la melodia riprende la prima traccia chiudendo il disco in maniera ciclica, ovviamente la scelta non è casuale. Fin da piccoli ci insegnano che la storia è ciclica, qui si parla di decadenza di una società: ora c’è, poi non c’è più e poi compare nuovamente. Le metafore nei Genesis sono a 360°.

Comprendere un disco così da cima a fondo è pressocchè impossibile, noi diciamo solo, senza assolutamente voler fare i boriosi, che non si giudica ciò che non si conosce appieno, perciò occhio a chi dice che questo sia un disco sopravvalutato.

 

1) Pink Floyd – The Dark Side of the Moon

Ma chi ci poteva essere secondo voi? Per chi ci segue sui social, questo disco è sempre in cima ad ogni sondaggio che inseriamo, persino quello per la copertina più bella. Si può parlare male di questo disco? Alcuni lo fanno, ma i bastian contrari esistono perennemente. Noi lo mettiamo al primo posto, siccome ha cambiato la storia, ha influenzato ogni atmosfera sociale possibile. Ad oggi è uno dei dischi più venduti al mondo, anche nel Record Store Day 2018 i Pink si sono classificati ottimamente come posizione a tal punto che avevamo dedicato loro un articolo per due ristampe d’eccezione.

Ma che cosa ha portato il lato scuro della luna alla nostra terra? Sicuramente rispetto ai dischi precedenti c’è più attenzione ai testi i quali filosofeggiano sul mancato controllo razionale dell’animo umano, da qui la metafora che dà nome al disco; bazzecole insomma. Facessero leggere questo album a scuola, forse sarebbe meglio.
Copie vendute in tutto il mondo: oltre 50 milioni. Per chi non lo avesse mai sentito preparatevi ad un viaggio attravreso il conflitto interiore, il rapporto col denaro, il tempo che scorre via, la morte e l’alienazione mentale (Syd Barrett insegna).

L’album si apre con le collegate Speak to Me e Breathe; la prima è una vera e propria overture di suoni: come a teatro l’orchestra si accorda eseguendo le medesime note, qui ci vengono proposti vari suoni solo in apparenza casuali. Dal battito cardiaco al ticchettio, dalla risata al registratore di cassa, poi l’elicottero, l’urlo e il riff di un sintetizzatore, ognuno di questi rappresenta una precisa e singola canzone del disco. Il sintetizzatore finale difatti introduce la successiva Breathe: una ballata posata ma ricca di armonie, densa di sfumature oniriche. Le metafore qui si sprecano per dare l’immagine del riposo dopo la fatica: inizialmente viene presentata la situazione post parto, dal dolore del travaglio al sollievo di aver dato alla luce un figlio, nella seconda parte emerge la figura di un coniglio che occupa ogni giorno della sua esistenza a scavare freneticamente una buca dopo l’altra.

Con la successiva traccia, On The Run, capiamo già di trovarci davanti ad un disco fatto con i contro C. Momenti di alto contenuto sonico-spaziale permeati di un pessimismo quasi leopardiano. Seriamente, i suoni presenti in questo pezzo, per l’epoca che correva, erano pura avanguardia ed inoltre descrivevano in toto lo stato d’ansia generale del pezzo. Il culmine finale è il già sentito ticchettio che introduce la seguente Time.

Qui testo e musica si fondono in una danza melodica articolata; stiamo parlando di uno dei pezzi più famosi nel rock. Sveglie e pendoli ci fanno accorgere del tempo che passa inesorabilmente, il gioco tra chitarra e pianoforte elettrico divisi su canali sinistro e destro conferisce una dilatazione sonora degna di nota. Nel chorus i ritmi si allentano, ma solo qui perchè poi giunge il momento di uno fra gli assoli più iconici di Gilmour.

Cos’è la diretta conseguenza del tempo che passa nell’universo floydiano? La morte, questo è il tema di The Great Gig In The Sky; una perla sonora resa tale soprattutto dai vocalizzi di Clare Torry (successivamente farà causa al gruppo per un compenso secondo lei non adeguato) i quali rendono il pezzo quasi cinematografico per la drammaturgia che porta con sè.
Giunge così il pezzo più famoso e commerciale: Money (e qui tutti non lo avete letto, ma lo avete cantato). Probabilmente il pezzo meno riuscito del disco, se non fosse per un giro di basso conosciuto anche dal coniglio scava buche dell’inizio e soprattutto per l’intervento del Sax. Il testo piace e questo dà la svolta, onore e lode tuttavia al fatto che fu composto da Waters in un solo giorno.

Us And Them è un pezzo dall’equilibrio invidiabile ed è giusto così, testi e melodie sono in simbiosi perfetta in questo disco e in questa traccia in particolare, si fanno portavoce di vari dualismi: noi e loro, ricchi e poveri e l’emarginazione di chi sceglie un proprio cammino non preconfezionato.

Momento interamente strumentale con Any Colour You Like. La struttura si rivela più semplice ed immediata, dopotutto non sono ammessi fronzoli: noi dobbiamo scegliere quale colore più ci piaccia, i Pink Floyd ce ne hanno proposti ben sette, ognuno allegoricamente collegato ad un pezzo del disco. Le ultime battute fanno da ponte alla successiva Brain Damage, con una ricca farcitura di riferimenti a Barrett. Questo è uno di quei brani il quale dimostra il fatto che, anche se il ritmo rimane lo stesso, il pathos è comunque toccante.

Come in un loop temporale ci si collega all’ultimo brano: Eclipse. C’è uno spiraglio di ottimismo, forse ce la potrem(m)o fare passando tra le difficoltà della vita e l’irrealtà, forse se mai riuscissimo a trovare una sintonia con noi stessi, con la parte del nostro Ego più oscura, con la nostra nevrosi ormai collettiva. Il brano chiude il disco con un battito cardiaco il quale nelle nostre memorie appare come un déjà-vu sentito 40 minuti fa, perchè tutto è ciclico.

Un capolavoro di album, se per certi versi può risultare grezzo, a livello di suoni, il contributo che ha dato alla storia in generale è unico. E l’insegnamento finale sarebbe da tatuarsi, all’inizio del battito cardiaco finale si sente una flebile voce che rivela un mantra esistenziale: « There is no dark side in the moon, really. Matter of fact it’s all dark. The only thing that makes it look alight is the sun. ». Chapeau.